Intervista a Natascia Pane, Literary Manager
La storia di
Natascia Pane è la storia di Contrappunto Literary Agency e viceversa. Perché
le due traiettorie, quella personale e quella professionale sono intrecciate,
ogni giorno, nell’affrontare le sfide del mercato editoriale.
A quasi dieci
anni dalla discesa in campo, Contrappunto ha raggiunto almeno due grandi
traguardi, l’inaugurazione nell’ottobre 2010 dell’Osservatorio Letterario Italia-Cina
e l’apertura a maggio 2011 di due divisioni estere, quella Spagnola e quella
Americana.
Specializzazione,
innovazione e dinamicità sono le coordinate principali. Ma dietro c’è qualcosa
di più. C’è la profonda ambizione di portare bellezza e magia con un approccio
manageriale audace come un albero, umano come il suono delle parole.
Natascia, tu sei una manager culturale, in particolare
dirigi da quasi dieci anni una literary agency. Qual è la tua definizione di management culturale?
La mia è una
definizione che per forza di cose si rifà ad una visione molto più umanistica che
scientifica. Nel corso degli anni ho scoperto che si chiama Humanistic Management
e forse l’avrei chiamato anch’io così se avessi trovato questo termine prima. Ma
in campo letterario Literary Management mi sembra a tutt’oggi la definizione
migliore. Se te la posso riassumere in una frase icastica, è gestire
persone ben prima che parole, ben prima che libri. E non intendo solo scrittori,
editori, ma innanzitutto gestire me stessa, le persone che lavorano con me e tutta
una serie di relazioni interpersonali che ne discendono e che creano la rete.
Alle mie ragazze, al
mio team, dico sempre “voi create ponti con le persone perché possano arrivare
verso di noi”. A ciò si aggiunge l’idea del potere creativo, oserei dire, creatore della parola. Il Literary Management
è diventato non solo cura della persona, ma una cura della parola che crea dalla bocca delle persone.
Come adoperi le competenze più tecniche e scientifiche
del management?
Preferisco lavorare a
partire dalla persona, dunque trovare il ruolo e dunque trovare i mezzi. Dal
momento esperienziale trovare il progetto che considero un vestito da cucire addosso alle persone. E’ una sartoria artigianale
di altissimo livello. E in tutto ciò siamo in due: io e la persona alla quale
sto cucendo addosso.
In qualità di manager con approccio umanistico come ti
sei rapportata al mercato?
Di fronte al rischio
di stare in una visione un po’ idealistica che avrebbe portato all’uscita dal
mercato, la grande vittoria non è stata inserirsi nel mercato ma cambiare le
coordinate del mercato e piegarle ai miei fini.
E per lo scrittore, cosa dire del suo rapporto con il
mercato?
C’è una
dissociazione enorme tra quello che può essere commercializzato con successo,
anche economico, e quella che è l’esigenza di trasmettere il proprio messaggio.
Una sfida che giorno dopo giorno viene vinta molto bene nel momento in cui si
va a trovare quella fetta di mercato che esiste, che fa numeri ed economia, e
là far nascere un nuovo bisogno. Ad esempio, si dice che il poeta sia il più sfortunato
in ambito editoriale perché fa una cosa che non è di moda, che non vende. Niente
di più falso. Quando il poeta inizia a trattare con la sua lirica - il mezzo
espressivo che lui ha scelto -
tematiche universali, anche molto specifiche, come la bioetica ad esempio,
riesce a trovare tante opportunità e diventare principe della comunicazione in
quell’argomento. Tu semini la tua piantina e dopo la foresta arriva.
Ci vuole un talento particolare per fare il manager
culturale?
A parere mio sì. C’è
un talento particolare ed è l’essere passati verso le apparenti sconfitte più
totali e l’essersi realizzati in maniera
creativa.
La mia domanda non era casuale perché è di talento che
ti occupi più specificamente nella tua ultima iniziativa: i seminari di TalentCoaching. Come sono nati? C’è stato un fatto o una persona che ti ha spinto a questa scelta?
Assolutamente sì. E’
una persona che non c’è più. Ne ho parlato durante il primo seminario perché ho
voluto raccontare l’esigenza di questi approcci. Il talento del manager nasce sulla
pelle. Sulla pelle scottata. Come ho detto, passa da un’apparente sconfitta ad una
capacità creativa di risollevarsi. Ho avuto un mentore sotto questo profilo,
nel peggiore dei modi, cioè tramite un lutto, il lutto di una mia scrittrice,
la latinista e narratrice Luciana Caraggi. Aveva un’anima narrativa stupenda. Abbiamo
iniziato il percorso insieme come per tutti gli scrittori che seguo. Lei però
mi ha dato qualcosa di più. Era malata di cancro e quando ha vissuto gli ultimi
momenti di vita in ospedale - quelli in cui faceva la chemio che sapeva
benissimo essere l’ultima - ha continuato la revisione dell’ultimo libro di
narrativa che stavamo gestendo. Avrebbe potuto dedicarsi al saluto di persone
che non vedeva da tanto o creare un commiato di altra natura. Lei ha scelto di
fare una cosa diversa. Tutte le volte in cui mi mandava messaggi anche molto
accorati “stammi vicina adesso che sto morendo, stammi vicino ancora di più
adesso che sto morendo” mi diceva “il lavoro che io faccio con te e che tu fai
con me, quindi usare la scrittura per dire quello che ho dentro, è la più
grande finestra verso il mondo che io possa avere in punto di morte”. Dopo la
sua scomparsa ho vissuto una grande crisi di ideali. Che lavoro inutile che
faccio, mi dicevo. Ma quello è stato il suo ultimo messaggio come a dire “no,
stai facendo l’unica cosa che in punto di morte voglio che mi venga detta”. Di
qui il coaching. La prima gemma è nata lì. I seminari partono da un inno alla
vita. Anche da questo è nato l’albero che fa da logo a Contrappunto.
Questa è stata la
risoluzione creativa di un’apparente sconfitta.
L’iniziativa dei seminari di Talent Coaching è nata a
Torino. Pensi di proporla in altre città, anche all’estero?
In effetti la sto
pensando itinerante, sempre con un numero limitato di persone in aula per
lavorare meglio sul singolo individuo. Ci è già stato chiesto di andare a Roma,
a Londra e a Milano. E noi andremo dove ci chiameranno!
Fare coaching significa lavorare sulla motivazione
delle persone. Sono di più gli scrittori in erba ad aver bisogno di questo o
non c’è un cliché?
No, non c’è un cliché.
E non sono seminari solo per scrittori, ma per chi usa le parole. Anche la
mamma che vuole trovare le parole giuste per incoraggiare il figlio a fare i
compiti sta utilizzando la parola e quindi deve trovare l’automotivazione per
raccontare questo incitamento. Non farà mai la scrittrice ma usa la parola
tutti i giorni.
La parola è evidentemente tutto nel tuo lavoro. Nella
società attuale siamo immersi in un flusso di parole, a volte alcune tornano
quasi come un ritornello. Vedi all’orizzonte un rischio di “svuotamento” della
parola?
Non c’è svuotamento
di significato. Non c’è un problema di svuotamento, ma quello di non considerarne
le conseguenze. C’è piuttosto uno scadimento di responsabilità. E la responsabilità
per chi comunica con le parole è fondamentale.
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